martedì 29 dicembre 2015

Fiaba in corso....

Stiamo giocando alla grande, sulla pagina Facebook della Disfida. 

Abbiamo iniziato una fiaba collettiva e chi vuole aggiunge un passaggio.
Ecco il risultato fin qui, a cui hanno contribuito diverse persone:


Occhidambra tirò un calcio alla polvere della strada, chiedendosi ancora una volta come fosse possibile che la siccità proseguisse ancora.

 Non pioveva da mesi e quelli che prima erano lussureggianti pascoli dipinti da mille colori ora apparivano come spettrali paesaggi lunari. Gli alberi avevano ormai perduto tutte le loro foglie e ripiegati su loro stessi sembrava aspettassero solo che il gelido vento del nord li spezzasse definitivamente.

Aveva percorso più volte quel sentiero che serpeggiava tra campi e si inoltrava in fitte boscaglie , spesso sentiva il rumore del vento che scuoteva rami foglie....quasi pareva parlassero tra loro, ora quei rami orfani di foglie si rivestono di strane figure, figure alate che volteggiano, si rincorrono e si posano quasi a fare da ornamento a rami desiderosi di compagnia.

Tornare indietro non si poteva ed andare avanti poneva molte domande.  Il Gufo Solitario lo guardò dritto negli occhi quasi a rassicurare Occhidambra...."La strada è lunga e difficile ma la Regina della Pioggia ti aiuterà....corri piccolo amico della Terra, occorre il tuo aiuto."

Così il ragazzo si armò di coraggio e determinazione e con i soli abiti che teneva indosso, partì alla volta dell'ignoto. Nel cuore custodiva le parole d'amore e sprone della mamma, nell'anima portava il dolore e la speranza dei suoi compaesani, che da molto ormai soffrivano la fame e fiduciosi avrebbero atteso il suo ritorno.

Il Gufo Solitario lo guardò allontanarsi, mentre il buio della notte copriva ogni cosa. “Avrà bisogno del mio aiuto,” pensò. “I suoi occhi non sono abituati all’oscurità come i miei.” Così, spalancate le ali, si apprestò a seguirlo.


Ignara di tutto, la Regina della Pioggia…


Come andrà a finire questa storia?
Chi vuole contribuire è il benvenuto.

domenica 29 novembre 2015

Due fiabe per un'immagine






Bella questa immagine vero?

Reperita sul web, ha ispirato due fiabe diversissime.

Vorrei tanto sapere quale preferite e perché. Buona domenica!





La spada
Controvoglia si era messo sotto le coperte, pronto a dormire. Era molto fiero di sé, quella sera aveva scritto la sua lettera a Babbo Natale e la mamma, quando gli aveva dato il bacio della buonanotte, aveva detto che l’avrebbe spedita subito. 
Non ci volle molto ad addormentarsi nel calduccio del suo letto e iniziare a sognare i regali che avrebbe ricevuto: una bellissima bicicletta con la quale sarebbe sfrecciano per le strade intorno a casa. La vide vicino a un albero, rossa con il sellino bianco e i raggi luccicanti che sembravano quelli del sole. Rimanendo quasi infastidito da quei bagliori si voltò e fu allora che la vide, appoggiata a una roccia, di un color oro, che cambiava in mille altri colori a seconda di come la si guardava. Sì! Sì! Era proprio la spada che aveva chiesto come regalo ed eccola lì pronta per iniziare mille avventure.
Si avvicinò piano, non per paura ma quasi per rispetto, quella era la più bellissima spada che avesse mai visto ed era sua… La prese tra le mani soppesandola come farebbe un cavaliere prima di un duello. Era sorprendentemente leggera e sembrava vibrare al minimo movimento nell'aria ma, cosa ancor più sorprendente, con essa si sentì subito coraggioso, pronto ad affrontare ogni nemico … anche il più cattivo; ed iniziò a fendere l’aria a destra e a sinistra, ora in alto ora in basso e con abilità a lui sconosciuta si immedesimò fingendo di infilzare quello che sembrava essere un terribile animale, ma nella foga perse l’equilibrio e barcollando scontrò con la spada una roccia che al contatto sprigiono come un’ enorme scintilla ed allo stesso tempo un fragoroso boato… Ora si che ebbe un po' di paura e ripresosi dalla sorpresa si accorse che tutto era cambiato intorno a lui. Dov'era finita la bicicletta? e non c’era più nemmeno la ringhiera che circondava la sua casa… la sua casa?… la sua casa?… ripeteva non vedendola più. Tutto era sparito: la bici, la casa , la macchina del papà posteggiata nel vialetto … anche il vialetto con tutti i vasi di fiori che piacevano tanto alla mamma … tutto …tutto … Era solo con la sua spada in mezzo a una radura quando un altro fragoroso tuono accompagnato da una forte luce lo sorprese, ma questa volta un po' più il là, dietro agli alberi. Altri bagliori ed altri boati… incredulo del suo coraggio si avvicinò per guardare cosa stesse accadendo ed eccolo di fronte a lui: un drago che stava combattendo con un terrificante animale dalle sembianze di dinosauro, come quelli che aveva appena studiato a scuola.
La lotta tra i due era spaventosa; uno usava la coda come si usa un bastone e l’altro che schivava i colpi alzandosi in volo con le sue possenti ali, e a sua volta ricambiava con lanci di fuoco che non colpendo il rivale esplodevano sul terreno come farebbe una bomba.
Con sua sorpresa, il bimbo si accorse che, nonostante il drago fosse decisamente più piccolo dell’avversario, si alzava in volo ma invece di scappare tornava sempre nello stesso punto, dove intravide un gattino… il drago stava difendendo il … ma era Macchia il suo gatto… ma che ci faceva lì? Brandendo la sua spada si mise a fianco del drago e con indicibile ardire lo affiancò, aiutandolo nella battaglia. Ora il campo si riempì di lampi e tuoni, vuoi per le manovre del drago e vuoi per la spada, che quando colpiva sprigionava accecanti bagliori.
Il dinosauro nonostante la mole si spaventò di tutto quel fuoco e sempre più incerto indietreggiava sin tanto che di scatto si voltò e incominciò a scappare … Vittoria!
Fu allora che il drago si voltò verso il nuovo compagno e chinandosi gli si avvicinò a pochi centimetri dal viso, quasi a sfiorarlo. ”Mamma, ora mi mangia” pensò il piccolo e chiudendo gli occhi si rassegnò al peggio… quando senti qualcosa di caldo ed appiccicoso sulla guancia … il drago lo stava … baciando? “Ma i draghi non danno baci” pensò e così incuriosito aprì gli occhi e vide il suo cane Birba che gli leccava il viso per svegliarlo.
La mamma, tolto l’animale, si sedette sul bordo del letto e gli disse: “Sono fiera del mio coraggioso giovanotto, che nonostante il terribile temporale di questa notte hai dormito come un angioletto.”




... ed ecco la seconda....


Lo Specchio del Lago

C’era, non c’era, in un tempo lontano, un giovane senza fortune e senza averi.
Trovatosi solo per il mondo con null'altro degli abiti che indossava, decise di mettersi in viaggio verso un luogo di cui aveva tanto sentito parlare: lo Specchio del Lago.
Si diceva che chiunque si specchiasse nelle acqua gelide di quel lago lontano, vedesse all'istante il proprio destino.
Il viaggio era lunghissimo e il giovane si incamminò di buona lena, quando finì in un territorio funestato da un drago. Case in fiamme, raccolti distrutti e gente in lacrime erano lo spettacolo che accompagnava ogni giorno i suoi passi.
“Ah, se solo avessi la forza e i mezzi per salvare queste persone!” si diceva continuando a camminare. Ma poiché non aveva la forza né i mezzi, lasciava che le sue gambe lo portassero lontano.
Arrivò anche in un regno che sembrava tanto prospero, ma in cui non incontrava altro che persone tristissime. Quando chiese a un passante il motivo di tanto sconforto, questi lo informò che la principessa di quel regno, amata da tutti, era stata rapita da un orrendo drago. “Ah, se solo avessi i mezzi per salvarla!” si rammaricò il giovane continuando per la sua strada.
Ma tanta era la fretta di allontanarsi da tutto quel dolore, che smarrì la strada e si perse tra altissime montagne.
Faceva freddo, lassù, e non si incontrava anima viva.
Stanco e affamato, il giovane vagò per giorni, incapace di andare avanti o di tornare da dove era venuto. E per tutto il tempo si lamentò tra sé e sé di non avere ali possenti come quelle di un drago, capaci di portarlo in un battibaleno oltre le alte cime innevate.
Una sera, mentre cercava di scaldare le membra intirizzite accanto al fuoco, cavò dalla tasca alcune nocciole di bosco che aveva raccolto per via. Un magra cena, invero, ma sempre meglio che dormire a pancia vuota. Ma mentre si domandava come fare per spaccare i gusci duri come la pietra, uno scoiattolo tutto tremante gli si fece vicino.
La bestiola gli aprì una nocciola con i denti aguzzi e gliela lasciò lì, guardandolo speranzoso.
“Ecco qua,” si disse allora il giovane offrendo un’altra nocciola allo scoiattolo, “io mi lamento di non avere la forza di un drago, ma questa creatura minuscola e priva di tutto trova il modo di rendersi utile agli altri anche con quel poco che ha.”
Dopo aver condiviso con lo scoiattolo le nocciole e aver dormito con lui accanto al fuoco, al mattino riprese il cammino e ben presto si trovò sulle sponde di un lago scintillante. Ma quando si chinò per bere nelle sue acque cristalline, ecco apparire nell'acqua il riflesso di un drago immenso!
Spaventato, il ragazzo fece un salto indietro, ma avvicinandosi di nuovo cautamente alla superficie, scoprì che il riflesso che vedeva era il suo.
Era lui quel drago. Aveva trovato lo Specchio del Lago e quello che gli mostrava era proprio quello che lui temeva di non aver la forza di affrontare.  
Ma sapevano tutti che lo Specchio del Lago non mentiva.
Dopo quella visione, tutto le sue convinzioni svanirono. Ritrovò la strada per tornare indietro e con null'altro che il proprio ingegno e il proprio coraggio (poiché null'altro gli serviva) sconfisse il primo drago, liberò la principessa, sconfisse l’altro drago e fu ripagato con glorie e onori.
E mai, mai più dubitò dei propri mezzi.
Ma fino alla fine dei suoi giorni, si dice che continuò ogni inverno a portare nocciole di bosco agli scoiattoli che vivevano in cima alle montagne.



martedì 24 novembre 2015

In un regno



In un regno


In un regno, neanche troppo lontano, viveva Re Gior… ma in realtà neanche lui si ricordava bene il suo nome, per tutti era semplicemente “Sua Maestà”.
Sua Maestà abitava in un castello sulla sommità di una collina che dominava tutta la vallata. All’occhio del viandante appariva sin da lontana quella costruzione imponente, scura, quasi senza finestre che al solo guardarla incuteva paura.
Al sui interno le giornate del popolo erano condizionate da regole ferree come in una caserma , e nulla poteva essere fatto se non allo scopo di prepararsi a un’imminente  invasione di un probabile popolo ostile.
Eh già, Sua Maestà  viveva nel ricordo, o meglio nel  terrore, di quando da bambino la sua vita fu segnata da un assedio durato alcuni anni.
Tutti, ma proprio tutti, trascorrevano le giornate tra spade, balestre e l’olio bollente che era sempre sul fuoco.
Unica eccezione di quel grigiore era la giovane Principessa che, cruccio di Sua Maestà , sembrava non appartenere a quel mondo austero. Un giorno capitò che la Principessa scorse una porticina dimenticata aperta che permetteva l’uscita dal castello e in un attimo il suo spirito libero la condusse fuori da quelle mura che nella sua vita non aveva mai varcato.
All’interno del castello non ci volle molto a scoprire la sua assenza e subito fu il panico, soprattutto per Sua Maestà il Re che all’improvviso si rese conto di aver perso l’unica luce della sua triste vita.
Si organizzarono subito le ricerche con in testa alla legione lo stesso Re.
Usciti dal castello pronti alla più terribile delle avventure, si addentrarono nei piccoli villaggi perlustrando ogni più remoto angolo del regno, interrogando ogni singolo abitante, che alla vista di tanti soldati ed armi si rintanava in casa.
Le ricerche non portarono a nessun risultato e preso dallo sconforto Sua Maestà fece ritorno al castello e ben presto si rinchiuse nelle sue stanze regali isolandosi dalla vita di castello.
Una mattina, come a seguire un proprio istinto, senza neanche adornarsi delle vesti regali e tantomeno di armi, in compagnia del solo cavallo si addentro nella valle alla disperata ricerca di Geltrude … solo allora si rese conto di non averla mai chiamata col suo nome e di non averla mai trattata come una figlia, e adesso chissà in quale atrocità  si trovava e nella testa reale rimbombavano come cannonate le sue urla immaginate e le disperate richieste d’aiuto.
Alla vista del Re però questa volta si presentò un altro paesaggio, o meglio, era lo stesso che giorni prima aveva attraversato con le sue truppe ma ora era tutto improvvisamente diverso:  gli operai lavoravano nei campi, ma si accorse che erano sereni;  le donne nelle loro faccende domestiche intonavano canti a glorificare la vita e soprattutto c’erano tanti bambini in ogni dove e tutti a urlare in spensierati giochi.
Fu allora che si rese conto di come aveva tristemente vissuto e peggio ancora di come aveva costretto al sacrificio la sua famiglia e i suoi sudditi, e inginocchiatosi all’ombra di un radioso albero sprofondò in un disperato pianto.
“Cosa  la turba tanto buon uomo da costringerla a tanta pena” disse una voce quasi angelica, proveniente da qualcuno che con caritatevole amore gli aveva messo una mano sulla spalla quasi a confortare la sua disperazione.
Voltatosi a si tanta dolcezza, quale aveva  vissuto solo da bambino al cospetto della madre, rimase folgorato alla vista della propria figliola che non esitò ad abbracciare e baciare improvvisamente  libero dai fantasmi del passato.

Non voglio annoiarvi su  come si svolsero i festeggiamenti per il ritrovamento della Principessa Geltrude , ma vi posso assicurare che se andaste a far visita al castello non credereste mai che quello un tempo era un luogo triste tanto quanto è ora  radioso e festoso.





Anche questa bellissima fiaba è opera di Claudio.

L'immagine è reperita sul Web.

lunedì 23 novembre 2015

Cantafiabe rotta...





Carissimi, 

mi dispiace molto, ma sono fuori uso per un po'.

Per fortuna, altri bravi cantafiabe mi stanno aiutando a mantenere vive le nostre fiabe. 

A presto!






Immagine reperita sul Web



Le urla

Fiaba di Claudio.




Le urla
Le urla erano ancora troppo vicine per fermarsi, “ Bigfool … Bigfool … Bigfool “ ripetevano ossessivi. Bigfool … il grande scemo. A lui non è che quel nome importasse molto, anche perché nel villaggio tutti i ragazzi da sempre l’avevano chiamato così. A volte scandivano il suo nome nel modo in cui si acclama un eroe, come quando con una spallata aveva fatto cadere tutte le mele dall’albero o come quando con un tronco aveva costruito un ponte per attraversare il ruscello. Ma questa non era una di quelle volte: gridavano il suo nome per deriderlo e lo facevano spesso. Era in quei momenti che sentiva la necessità di nascondersi nel bosco, dove nessuno di quei mocciosi avrebbe mai avuto il coraggio di addentrarsi. Ma lui sì , lui lo sentiva come una calda coperta in una fredda giornata d’inverno.
Nel bosco trascorreva molto tempo a raccogliere frutti e funghi o più semplicemente si trastullava a spiare gli animaletti che numerosi l’abitavano, ma in questi giorni che anticipavano l’inverno non vi era nulla da raccogliere e nessun rumore tradiva la presenza si esseri viventi. Fu così che si ritrovò a girovagare senza una precisa meta, certo solo che comunque per un po’ sarebbe stato nascosto lì - come del resto faceva spesso - quando, da oltre una collinetta, tra i cespugli, sentì come un rantolo. Non era un grugnito, lui lo sapeva riconoscere un cinghiale, e nemmeno un cervo o un … “ORSO” … gli si strozzò in gola l’urlo. Non serviva neanche avvicinarsi oltre per vederlo meglio, da quanto era grosso, e con stupore si accorse che certamente anche lui aveva notato la sua presenza, ma nonostante ciò non sembrava reagire e tantomeno aggredirlo, anzi, dava l’impressione di voler dire qualcosa, con un lamento sempre più debole, soffocato … rassegnato.
Riconoscendo negli occhi dell’animale la paura, si avvicinò con movimenti lenti ma decisi, da vero cacciatore, tanto da sentirne il fiato sul viso, fu allora che si accorse che la bestiola era caduta in una tagliola lasciata lì chissà da chi. Non era stata posizionata certo per l’orso, anche perché quello era forse il primo che si vedeva libero da quelle parti. Il ragazzo si ricordò di un orso che aveva visto qualche tempo prima chiuso in gabbia e già allora aveva provato tanta tristezza.
Sussurrando parole senza senso allo scopo di calmare l’animale, si chinò ai suoi piedi e con movimenti lenti iniziò a liberarlo dalla trappola. L’orso non reagiva, forse stremato o forse, e questo era quello che gli dava il coraggio di proseguire, fiducioso nel piccolo uomo.
Si narra che spesso Bigfool venga visto al margine del bosco insieme a un orso e che con questi trascorra gran parte del suo tempo; si narra anche che, se qualcuno prende in giro il ragazzo, dal bosco si levino spaventosi ruggiti. Si narra, ma quel che è certo è che da quel giorno il ragazzo stesso si è trasformato in orso e, come il suo compagno del bosco, si erge a difesa di chi un orso non ha.

martedì 10 novembre 2015

Quelli che corrono


Mi dispiace per il lungo silenzio, ma spero che vorrete perdonarmi. A volte mi perdo.






Ecco una nuova fiaba.


Quelli che corrono


C’era una volta un regno felice. O, almeno, così credevano i suoi abitanti. Avevano tutto: carrozze che correvano veloci, abiti eleganti per andare alle feste, giorni ben ordinati e leggi che regolavano ogni cosa e ogni comportamento. Non mancava proprio nulla.
Almeno fino a quando non arrivarono “quelli che corrono”.
La Principessa fu la prima a vederne uno. Si stava recando a un ballo, abbigliata con eleganza, sulla sua lussuosa carrozza in compagnia di sua cugina Eufemia.

A un tratto, guardando fuori dal finestrino, vide una copia esatta di se stessa che correva a fianco della carrozza.
Indossava persino i suoi stessi vestiti!
La Principessa si spaventò moltissimo, ma la sua copia esatta le scoccò un sorriso, continuando a correre alla stessa velocità dei cavalli, apparentemente senza sforzo alcuno.
Che magia era mai quella?
La Principessa diede di gomito a Eufemia, seduta accanto a lei. «Guarda. Guarda!» disse tutta agitata.
Eufemia si sporse a guardare, poi fissò la cugina: «Che cosa?» disse scuotendo la testa. «Non vedo nulla di strano. Solo le solite strade.»
«Ma come?» sbottò la Principessa.
 «Non vedi quella persona simile a me che corre accanto alla carrozza?»
Eufemia tornò ad accomodarsi sul sedile, stando attenta a non gualcirsi l’abito nuovo, e scoccò alla sua vicina un’occhiata preoccupata: «Nessuno può correre a piedi alla stessa velocità di una carrozza, cara cugina. Forse sei un po’ affaticata…»
La Principessa non prese affatto bene quel commento e si voltò immusonita a guardare fuori mentre Eufemia, a disagio, si sporgeva per guardare fuori dall’altro lato della carrozza.
La copia della Principessa continuò a correre per un buon tratto, poi fece un cortese cenno di saluto e accelerò ancora, sparendo ben presto alla vista.
Dopo un bel po’ di silenzio, improvvisamente Eufemia si lasciò sfuggire una specie di singulto spaventato, portandosi una mano al petto. Adesso era lei a sostenere di vedere una ragazza simile a lei che correva a fianco della carrozza! La Principessa, invece, non riusciva a scorgere proprio nessuno.
Da quel momento, chi prima chi dopo, tutti gli abitanti dei Regno Felice iniziarono a vedere ogni tanto copie di se stessi che correvano indaffarate di qua e di là. Ognuno poteva vedere solo il proprio doppio e non riusciva a scorgere quelli degli altri, ma il fenomeno era così diffuso che la gente iniziò a parlarne, chiamando queste copie “quelli che corrono” e interrogandosi a vicenda.

Il Re, preoccupato, inviò banditori per tutto il regno, promettendo la mano della Principessa a chi fosse riuscito a spiegare e far cessare quello strano fenomeno, ma non si presentò nessuno.

Un giorno, però,  arrivò nel regno un forestiero. Era un giovane di bell’aspetto, vestito modestamente e con pochi averi  racchiusi in un fagotto che portava in spalla.   
«Buondì, caro oste» disse cortesemente sedendosi al tavolo della locanda. «Certo che avete un bel traffico, da queste parti, con i vostri doppi che corrono in quel modo di qua e di là!»
L’oste, nell’udire quelle parole, per poco non rovesciò la caraffa del vino. «Dunque voi li vedete?» si affrettò a chiedere e alla risposta affermativa inviò in tutta fretta il suo garzone al palazzo, per avvertire il Re.
In men che non si dica arrivarono infatti le guardie, che prelevarono il giovane e lo condussero senza tanti complimenti al cospetto del Re.
Il sovrano in quel momento era particolarmente di cattivo umore, visto che il suo doppio sfrecciava dal mattino per le sale del palazzo, così si rivolse molto bruscamente al ragazzo:  «Dunque voi sostenete di vedere quelli che corrono?»
«Certo che sì, vostra Maestà, poiché io sono uno di loro» rispose quello con un grazioso inchino.
«Stento davvero a credervi. Anche perché voi non correte. E ditemi, vedete niente in questa sala?» chiese ancora il Re.
«Vedo il vostro doppio, Maestà, che corre da tutte le parti e corrono anche di doppi delle vostre guardie, dei domestici, del ciambellano e della vostra graziosa figlia. C’è un bel po’ di confusione, Maestà.»
«Appunto. Quindi non fatemi spazientire e ditemi come far cessare questa baraonda. Questo è un regno ordinato, sapete…»
« Questo è il problema, Maestà. Troppo ordinato. Quelle figure che vedete correre di qua e di là, sono le portatrici di tutto quello che, nelle vostre vite, non lasciate scorrere liberamente. Sono i desideri inespressi, gli impulsi non seguiti, le regole inutili non infrante. Più voi siete ubbidienti e ordinati, più loro devono essere disobbedienti e disordinati.»
«Ma come facciamo a farli smettere?»
«Ascoltando di più quello che vi chiede il cuore. Adesso, per esempio, il vostro doppio vorrebbe tanto uscire in giardino a godersi una bella passeggiata sotto il sole, mentre voi siete chiuso qui dentro a occuparvi di questioni serie. Provate a uscire per una breve passeggiata, e poi vedrete che il vostro doppio accetterà di stare un pochino più calmo quando serve. E quando i vostri desideri e i vostri doveri saranno più equilibrati, vedrete che il vostro doppio se ne andrò in giro per conto suo, a vivere la vita che voi non potete. Io, per esempio, sono il doppio di un serissimo Principe che vive oltre le montagne. Da quando lui ha accettato anche di divertirsi e seguire di più il suo cuore, io ho potuto andarmene in giro per il mondo per conto mio, perché lui non ha più bisogno di me.»

Non fu facile, far accettare quella verità a Regno Felice, ma visto che c’era una regola che lo imponeva, pian piano gli abitanti presero ad ascoltare un po’ di più i loro cuori e un po’ meno le regole, fino a quando i doppi non iniziarono ad andarsene dal paese, più tranquilli e soddisfatti di prima.

Il Re, che era un uomo di parola, voleva dare sua figlia in sposa al doppio del principe, ma quello naturalmente rifiutò e chiese invece la mano della copia della principessa, con cui partì felice per proseguire il suo vagabondare.   

martedì 30 giugno 2015

Il segreto dell'Acqua

Anche questa volta la fiaba è un po' in ritardo.
Ho unito diverse immagini tra le più votate sulla pagina di Facebook, tra cui la bimba dagli occhi di cielo e il tunnel di sole. 
Comunque, eccola. 




Il segreto dell’Acqua

Le antiche leggende raccontano che l’alba e il tramonto sono i momenti della giornata in cui tutto è possibile.
Mentre il Signore dell’Oscurità e il Sole si fronteggiano, agli esseri umani è finalmente concesso di scegliere il proprio destino, di iniziare cambiamenti.
Quando un bambino nasce in questi istanti, i due Signori se lo contendono con tutte le forze, sapendo che in meno di un battito di ciglia si deciderà se quel neonato andrà a ingrossare le fila della Luce o dell’Ombra.
Così fu in quel mattino, quando ancora l’oscurità avvolgeva la terra e una bella bambina stava venendo alla luce.
Il Sole aveva appena iniziato a disegnare una linea più chiara all’orizzonte, ancora troppo lontano per reclamare la piccola.
Ma quando ormai il Signore dell’Oscurità stava allungando le mani trionfante, per qualche mistero un sottilissimo raggio di sole rosa rimbalzò su una goccia di rugiada, che lo deviò e lo aumentò quel tanto che bastava per mandarlo dritto dritto sul volto della nuova nata.
Il Sole si alzò maestoso e alla bimba di luce fu imposto il nome di Rugiada.
Aveva occhi di cielo e capelli che conservavano la memoria di quel primo raggio di sole rosa.
Ma da quel giorno, a ogni alba e tramonto di due Signori litigavano ancora per il diritto su di lei e, poiché i bambini vedono tutto, Rugiada in quei momenti diventava silenziosa.
Passarono gli anni e davvero sembrava non ci fosse alcun dubbio sul destino di quella bambina che era sempre felice, e cantava e iniziava ogni giorno con un grande sorriso.
Agli occhi distratti degli adulti, quei pochi istanti in cui la piccola osservava il cielo al tramonto, stranamente tranquilla, potevano sembrare solo la naturale stanchezza dopo i giochi e le scoperte del giorno.
Ma non era così.
Rugiada continuava a vedere i due Signori fronteggiarsi per lei, giorno dopo giorno, e ne provava un grande dispiacere.
Il Sole la vezzeggiava, le regalava spesso i suoi raggi più luminosi e più belli, a volte lasciandone alcuni accanto al suo letto, prima di tramontare.
E la bimba, con quei raggi di sole, intrecciava stupendi bracciali e collane con cui si ornava durante il giorno.
L’Ombra, dal canto suo, creava per lei angoli riparati e freschi tra le fronde del giardino e ne cullava il sonno, cantandole canzoni fatte di frinire di grilli e fruscii di foglie.
Ma era soprattutto in giardino che i due avversari si scontravano
Se l’Ombra creava un tunnel ombroso di foglie, il Sole immediatamente lo ornava di luminosi fiori gialli, per non farsi dimenticare. Se il Sole illuminava un prato, l’Ombra ne ricamava le superfici e i bordi con ombre di alberi e cespugli.
Finché un giorno, ormai abbastanza grande, Rugiada ebbe un’idea.
Chiese aiuto all’Acqua, che viveva in perfetta armonia con entrambi, giocando con la luce di giorno e facendosi scura come l’inchiostro di notte. E l’Acqua le rivelò il suo segreto.
Adesso Rugiada sapeva.
Doveva solo farlo sapere ai due Signori.
Decise di farlo costruendo un laghetto, con l’aiuto dei genitori e dei fratelli.
Un laghetto rotondo, per metà alla luce e per metà all’ombra, in cui l’armonia fra le due parti fosse evidente attraverso la linea sinuosa che le separava e le univa. Pesci di colore diverso furono posti a nuotare in quel laghetto, che dall’alto si vedeva benissimo.
Il Sole e il Signore dell’Ombra videro, infatti, e si fecero una bella risata.
Con quel gesto, Rugiada reclamava il diritto di scelta per se stessa e per altri. Non creature d’ombra o di luce, dunque, ma d’ombra e di luce.
Da quel giorno, altri bambini come lei vennero al mondo, salvati dal segreto dell’Acqua, in cammino verso un’umanità finalmente padrona del proprio destino anche al di fuori dei magici istanti dell’alba e del tramonto.

     
L'immagine utilizzata è della pagina Fantasy of Dreams

venerdì 12 giugno 2015

L'uovo di drago

Quando sulla pagina di Facebook avete votato l'immagine dell'uovo di drago, mi avete messo un po' in crisi.  Molti grandi scrittori hanno trattato questo argomento prima di me in modo magnifico. Che cosa avrei potuto dire, di nuovo?
Grazie a Dianora per avermi messo sulla strada giusta. E allora, ecco la vostra fiaba.






L’uovo di drago

Clarallegrabella non era una fata silenziosa. Come incaricata della cura delle uova di drago, e di carattere MOLTO irrequieto, aveva inventato un sistema per portarsi appresso le uova ovunque andasse, appese alla cintura come un ammasso multicolore e tintinnante. 

Poco male per le uova di drago, che sono resistentissime e si schiudono solo quando è tempo, ma per gli abitanti del bosco sentire quello scampanellio continuo non era molto piacevole. Invano i folletti, gli gnomi e gli altri abitanti del bosco avevano pregato la fata di starsene un po’ a casa, almeno ogni tanto…
Quando spaventava i cuccioli o li svegliava nel sonno borbottavano “Sciò! Via di qui!”
Clarallegrabella non ci badava e continuava a scorrazzare di qua e di là, accompagnata da tutte le sue uova tintinnanti.

Non proprio tutte, a dire il vero. Perché quel giorno, non riuscendo proprio resistere a quelle belle ciliegie che le sorridevano dall’albero, la fata si arrampicò agilmente fino in cima e non discese fino a quando non ebbe le labbra rosse rosse e un gradevole senso di soddisfazione nel pancino.

Proprio non si accorse dell’uovo di drago rosso come le ciliegie rimasto impigliato a un ramo. Chi avrebbe potuto notarlo?

Solo a sera inoltrata, quando finalmente tornata a casa contò come d’abitudine le uova, si accorse di averne perso uno. Senza indugio accese le ali notturne, che emanavano un bel bagliore dorato, e si mise a cercare per tutto il bosco. Ma niente. 

L’uovo di drago, intanto, dopo avere oscillato gradevolmente per un po’ sospinto dalla brezza primaverile, era capitombolato giù dall’albero, rotolando per un bel pezzo lungo un pendio erboso. 
Lo avevano fermato le radici di un albero, che purtroppo, nascondevano una tana profonda. 

Il ghiro che la abitava si era indignato non poco, quando l’uovo lo aveva colpito dritto sul muso.
Aveva già indossato la camicia e la berretta da notte e non prese affatto bene quell’aggressione involontaria.
Subito gettò l’uovo fuori dalla tana, borbottando: “Ma guarda se uno non può starsene tranquillo nemmeno nella sua casa! Sciò! Via di qui!”

L’uovo continuò a rotolare e rotolare, fino a quando finì in un allegro torrente, disturbando non poco un ranocchio che proprio in quel momento era impegnato in una serenata gracidante piuttosto complicata. “Sciò! Via di qui!” urlò il ranocchio, ma l’uovo era già atterrato su una bella foglia di ninfea che navigava tranquilla sulle acque.

Insomma, tranquilla fino a quando non arrivarono le rapide, perché a quel punto l’uovo fu sbalzato sulle rocce, e rimbalzò andando a colpire la coda di un topolino che stava per l’appunto sfuggendo a un gatto…
Il topolino si liberò la coda con una strattone e gridò: “Sciò! Via di qui!.”
Ma l’uovo era già rotolato lontano…

Insomma, sarebbe lungo raccontare tutte le peripezie del povero uovo di drago in quella notte, ma molte ore e molti “Sciò!” dopo, l’uovo finalmente si fermò in una radura inondata dalla luna piena e si schiuse, così, tutto solo.

Ora, dovete sapere che anche per i draghi la prima cosa in movimento che vedono al momento della schiusa rimarrà per sempre importante e desiderata. Per sfortuna, la prima cosa che vide il draghetto fu la luna, che sembrava uscire proprio in quel momento da alcune nubi leggere…

Subito il piccolo drago cercò di spiccare il volo per andare da quella cosa così bella e bianca, ma per fortuna non aveva ancora imparato a volare. 
Faceva solo dei gran salti, piagnucolando sommessamente e ricadendo ogni volta sull’erba.

Fu così che lo trovò Clarallegrabella all’alba, il guscio rosso ciliegia abbandonato poco distante. 
La fata lo raccolse delicatamente e lo studiò avvicinandoselo al viso. 
Subito fu presa da una tenerezza infinita per quel povero drago quasi-sperduto e gli disse teneramente: “Ma chi sei tu?”

Il drago la guardò a sua volta e poi, purtroppo, cercò di pronunciare quella parola che aveva sentito infinite volte prima di nascere: sciò.
Purtroppo, la pronuncia di una simile parola, in un drago appena nato, porta inevitabilmente a qualche fiammata incontrollata…

La fata si ritrovò in un lampo con le punte delle alucce bruciacchiate e tutto il viso sporco di fuliggine. 

Siccome aveva un grande senso dell’umorismo, decise di chiamare il piccolo drago proprio così: Sciò. Si fece una risata e lo riportò a casa, senza sapere che un’altra sorpresa l’attendeva. Perché quella sera, al sorgere della luna, Sciò iniziò a pingere e a cercare in tutti i modi di spiccare il volo. 

Da allora, la fata imparò a trovarsi sempre a casa e con le finestre ben chiuse a ogni sorgere di luna, passando quasi sempre la notte a cercare di trattenere Sciò. 
Così, durante il giorno era tanto stanca da gironzolare molto meno, con buona pace di tutti gli abitanti del bosco, che da quel giorno dovettero usare la parola Sciò solo per chiamare il loro nuovo amico. 

   

     

giovedì 23 aprile 2015

L'ultimo drago

Tempo fa, la Pagina Druidi e le creature del bosco mi ha inviato questa immagine, invitandomi a usarla come ispirazione per scrivere una fiaba.

Questo è proprio lo spirito con cui ho creato questo blog. L'idea di giocare con spunti lanciati o votati da tutti voi, che siano post sulla pagina Facebook, immagini o frasi.

Potevo non raccogliere la sfida?




L'ultimo drago

C’era una volta una Terra Felice abitata da draghi e magia, in cui innumerevoli accessi conducevano là dove i desideri si possono realizzare.

Le genti di quei luoghi utilizzavano gli accessi - sorvegliati da draghi - per andare a chiedere guarigione dalle malattie, poteri, amore, ricchezze.
I desideri umani trovavano in quei luoghi accoglienza e soddisfazione, per coloro che ne conoscevano l'esistenza e le regole. 

Le terre erano prospere, le ricchezze inesauribili, la gente felice. Era, quello, un equilibrio talmente perfetto che avrebbe potuto proseguire nei secoli, se solo…
Se solo non fosse arrivato un giorno uno straniero colpito dal male dell’avidità. Aveva bei modi, lo straniero, e abiti lucenti e una lingua suadente. E al posto del cuore un abisso di ingordigia che neppure tutte le magie del mondo avrebbero potuto colmare, dacché non gli bastava avere a disposizione ricchezze e poteri, salute e affetti. Per quel cuore malvagio, tutti questi beni erano inutili, se non si stagliavano sullo sfondo di altrui infelicità. Così lo straniero ammassò grandi ricchezze a grandi poteri, e in un notte senza luna attraversò di nascosto l’accesso e chiese… di divenirne il solo e unico essere umano a poter disporre di quel luogo. 
Il drago che era di guardia lanciò un lamento che risuonò per miglia e miglia, quando fu stretto dalle catene che lo imprigionavano per sempre alla volontà del malvagio. 
Nessuno capì il significato di quel lamento, ma fin troppo presto gli abitanti  di Terra Felice scoprirono che tutti gli accessi ai luoghi della realizzazione dei sogni erano stati distrutti e tutti i draghi guardiani uccisi. Tutti, tranne uno, di cui lo straniero si proclamava unico e solo padrone. 

Per la prima volta in secoli e secoli, a Terra Felice si provarono i morsi della fame, le miserie delle ristrettezze e si udirono gemiti sommessi del dolore e delle malattie. La solitudine iniziò a insinuarsi sotto gli usci e nei cuori; la diffidenza e la paura presero a strisciare accanto agli abitanti, che poco a poco iniziarono a partire in cerca di luoghi più fortunati e meno infelici.

L’ultimo drago non sapeva proprio che fare, per fermare quel disastro. Almeno fino a quando, guardando la luna, ricordò esattamente le parole usate dallo straniero per esprimere il suo desiderio. Aveva chiesto di essere l’unico “umano a poter usufruire di quei luoghi. Ma non aveva detto nulla dei draghi!

Ferendosi con le catene che lo stringevano, l’ultimo drago attraversò l’accesso e chiese. Chiese di cadere in un sonno profondo, di chiudere l’accesso fino a quando un uomo degno e capace di condividere non fosse tornato a svegliarlo. 
Detto questo tornò all’esterno, si acciambellò di fronte all’ingresso e cadde in un sonno profondo che dura ancor oggi. 
Sono passati tanti secoli, ormai, e il tempo ha corroso le antiche catene e i muschi hanno coperto il corpo del drago addormentato, che ora sembra di pietra. Ma se guardate bene l’immagine, riconoscerete la testa possente e il lungo corpo avvolto che sorvegliano ancora l’accesso al luogo in cui si realizzano i desideri, in attesa del Risveglio.

  



lunedì 20 aprile 2015

La borsa della fata

Il post di oggi è una fiaba  ispirata da una borsina prodotta da Il Filo Stregato.
Siamo in luna crescente, il momento ideale per richiamare fortuna e protezione. Vi auguro di cuore che la borsa della fata vi porti tutto ciò che desiderate e di cui avete bisogno.

La borsa della fata

Nottolino non era mai stato baciato dalla Fortuna. Né alto né basso, né ricco né povero, né bello né brutto, sembrava essere destinato a una di quelle vite che si consumano senza lasciare traccia come pozzanghere al sole.
Non c’era niente di particolare in quel giorno in cui si trovò a passeggiare nel bosco, se non una strana limpidezza dell’aria, una brillantezza di colori davvero insolita.
E mentre osservava queste cose con il naso in su, non si accorse di essere giunto in una radura e che almeno quattro paia di occhietti lo stavano osservando.
Trovandosi all’improvviso vicinissimo ai cinghiali che lo fissavano (per la verità perplessi quanto lui) Nottolino diede un balzo e si arrampicò velocissimo su di un albero un po’ troppo fragile per reggere il suo peso, rovinando subito dopo in una buca profonda quanto l’Inferno. 
Una volta abituati gli occhi all’oscurità, percepì una codina tremante e due grandi occhi fissi su di lui. 
“Chi sei?” chiese Nottolino. 
“Ti prego, non mangiarmi” disse la bestiola avvicinandosi, in modo che da farsi vedere. 
“No che non ti mangio,” rispose il ragazzo osservando quello strano essere. Aveva la coda vaporosa di uno scoiattolo, ma innestata su un corpicino striminzito e tremante, sormontato da una testa enorme quasi tutta occupata da due occhioni rotondi e sormontata da buffe orecchie triangolari.
“Aiutami a uscire di qui,” disse la bestiola. “E io aiuterò te.”
“Io posso aiutarti a uscire,” disse Nottolino. “Ma non vedo proprio come TU potresti aiutare me. Comunque, sali sulla mia spalla.”
Così, una volta presa in spalla la bestiola, il ragazzo iniziò ad arrampicarsi con le mani e con i piedi sulle pareti della fossa. 
Quando furono vicini all’uscita, però, una parete di roccia liscia come uno specchio gli impedì di proseguire. Tenendosi ad alcune radici, riuscì comunque a issarsi ancora un po’ e a lanciare la bestiolina sul bordo, dove si trasformò immediatamente in una bellissima fata.
“Ricorda! Hai promessi di aiutarmi!” le urlò Nottolino ancora dentro la buca. 
“Io non dimentico,” rispose la fata, ma immediatamente dopo si voltò e scomparve, non prima di aver perso una borsina verde che portava su una spalla e che andò a cadere proprio sul naso di Nottolino. 
“Perfetto,” penso questi amareggiato. “Sono qui in una buca da cui non so uscire, con solo una borsina vuota in mano. Se solo avessi una fune e un gancio!”
Immediatamente la borsa si fece più pesante e al suo interno c’era proprio una fune leggera e robusta che brillava come argento e un gancio abbastanza grande e pesante, che al primo lancio si andò a fissare saldamente sul ramo di un albero consentendo al ragazzo di issarsi con la fune fuori dalla buca. 
Una volta in salvo, il giovane ripose tutto nella borsa, che tornò immediatamente vuota, e si mise a osservarla. Era una borsa di seta verde, ornata di foglie disposte graziosamente e chiusa da un bottone di un legno chiaro che doveva essere nocciolo, il legno magico e protettivo tanto amato dalle fate.
Si diresse quindi verso casa, questa volta stando bene attento a tutti i suoni  del bosco per non imbattersi nuovamente nei cinghiali, fino a quando quasi andò a sbattere contro un rovo carico di frutti maturi.
“Se solo avessi un cestino,” disse Nottolino tra sé “potrei raccoglierne un po’ da portare a casa.”
Ma ecco di nuovo la borsina farsi più pesante, rivelando un cestino proprio delle dimensioni giuste per contenere quelle belle more.
Da quel giorno, la vita di Nottolino cambiò e per molti anni poté fare affidamento su quella borsina che gli concedeva in ogni istante ciò di cui aveva più bisogno e da cui non si separava mai. Ma mentre lui invecchiava, la borsina rimaneva sempre bella e lucente come il primo giorno.
L’aveva ancora con sé, quando si recò a passeggiare nello stesso bosco e notò la stessa brillantezza di colori di tanti anni prima. La borsina si fece luminosa come se avesse una lanterna al suo interno e all’improvviso ecco comparire la fata, bella e splendente come se per lei tutti quegli anni fossero stati solo una manciata di secondi.
Rivedendola Nottolino, che ormai era vecchio e non aveva più nulla da perdere, non riuscì a trattenersi dal rimproverarla. “Mi avevi promesso aiuto, e invece te ne sei andata, quel giorno. Se non avessi perso la borsa, io sarei morto dentro a quella fossa.”
La fata lo guardò con aria curiosa, prima di dire con calma: “Le fate non perdono mai niente. Era un dono, il mio, per ringraziarti di avermi salvata. Ma visto che sei ingrato e che invece di coltivare la riconoscenza hai preferito coltivare il rancore, ti chiedo di restituirmi quello che mi appartiene.” 
Detto ciò allungò imperiosamente una mano e Nottolino vi depose di malavoglia quella borsina che per tanti anni era stata la sua compagna fedele. 
La fata scomparve e l’uomo non la rivide mai più, ma generosamente lasciò a Nottolino tutti i beni e le fortune che in tanti anni la borsina gli aveva procurato, insieme alla più grande lezione di tutta la sua vita.




domenica 29 marzo 2015

La luce nel bosco

Una fiaba per augurarvi buon fine settimana. Ho unito due spunti tra i più votati sulla pagina Facebook: La lucina nel bosco e La statua che narra fiabe. 


La luce nel bosco

Adesso, adesso Clara si sentiva sciocca.
Avevano fatto un bel picnic, tutti insieme. Con fratelli, genitori, zii e cugini. Avevano mangiato sulle coperte stese sull’erba e scherzato e giocato.
Non sapeva perché, in quell’ultimo gioco a nascondino, avevo voluto allontanarsi tanto. Orgoglio, forse. Era la più piccola, e i cugini e i fratelli la trovavano sempre.
Così, si era incamminata di soppiatto nel bosco e si era nascosta dietro un cespuglio, ma poi quel nascondiglio non le era più sembrato tanto sicuro e si era allontanata ancora un po’ e poi un altro po’. Infine aveva visto una farfalla bellissima e l’aveva seguita immaginando la faccia che avrebbero fatto, gli altri, quando  sarebbe infine sbucata fuori urlando “Liberi tutti!” e li avrebbe portati a vedere quella bellissima farfalla.
Poi si era stesa sotto un abete, a osservare il cielo attraverso l’intrico dei rami e all’improvviso si era resa conto che da tanto tempo non sentiva più le voci dei grandi e nemmeno quelle dei bambini.
Il cielo era diventato rapidamente livido, prima di arrossare dove il sole stava scendendo.
E adesso era lì, smarrita e sola, a camminare in quel bosco scurissimo e pieno di suoni sconosciuti.
Dapprima, aveva urlato i nomi dei fratelli e dei cugini. Si era arrabbiata per quello scherzo crudele di farle credere di essersi persa.
Poi aveva capito che non era uno scherzo.
Era andata avanti a urlare ogni tanto, più forte che poteva: “SONO QUI!”
Ma le aveva risposto solo il frusciare del vento tra le foglie.
Ora, ormai, aveva perso la voce.
Aveva freddo, aveva sete. Non c’era nessuno.
Sentiva due lacrime pungerle gli occhi, ma cercava di scacciarle. Non voleva piangere.
Voleva trovare gli altri, abbracciare la mamma e tornare a casa.
Al pensiero della mamma non riuscì più a trattenersi e le lacrime iniziarono a scorrere, rendendole per un attimo la vista offuscata.
E in quella foschia intravide un bagliore.  
Si asciugò rapida gli occhi col dorso della mano.
Ma sì!
In mezzo alle foglie, in lontananza, si vedeva una luce.
Clara si diresse da quella parte più in fretta che poteva. Se c’era una luce, allora c’era una casa. E se c’era una casa, allora c’erano persone che avrebbero potuto aiutarla a ritrovare la mamma.
Quando fu un po’ più vicina, si accorse che una casa c’era davvero. Una bella casetta con finestre illuminate. Poi udì una voce.
 Una voce tranquilla stava raccontando una fiaba.
La bambina si guardò intorno, incuriosita. Nella radura in cui sorgeva la casa non c’era nessuno.
Solo qualche vecchia statua, mezzo coperta di foglie e muschi.
Ma man mano che si avvicinava, però,  la voce si faceva più distinta. Era bellissima e raccontava dell’amore di un principe e di una sfortunata principessa in un modo così perfetto, che Clara si scoprì a rallentare il passo.
E poi, voltandosi, la vide. Una statua di marmo sembrava reggere tra le braccia un libro, mentre le labbra si muovevano nel leggere la storia.  
Quasi senza volere, Clara trovò lì accanto un masso coperto di soffice muschio e sedette comodamente, incapace di fare altro che ascoltare la fiaba.
Un vago chiarore invase la radura, ma la bimba era così assorta nella fiaba che quasi non lo notò.
Solo quando lo strano cantastorie terminò finalmente il racconto con un “… e vissero per sempre felici e contenti” si riscosse e si guardò intorno.
Decine di piccole creature alate si erano posate tutto intorno, chi su una foglia, chi su un ramo, chi su altri sassi coperti di muschio. Erano loro ad avere illuminato la radura.
“Oooh, che bella fiaba!” sospirò una delle creature. Era coricata a pancia in giù su una foglia di quercia e aveva l’aspetto di una ragazzina dai capelli rossi, anche se non era più alta di un cucchiaio. Il piccolo viso era costellato di lentiggini e le alucce si agitavano in modo sbarazzino dietro di lei.
La statua, terminata la sua storia, era tornata immobile, quindi Clara si rivolse alla strana creatura.
“Ma che cos’è?”
La creatura, che era una fata, la guardò per un attimo sbattendo le palpebre stupita.
“E tu che cosa ci fai qui?” sbottò infine invece di rispondere alla domanda della bambina.
“Mi sono persa” disse Clara, ricordando all’improvviso la sua triste condizione.
La fata le volò accanto, premurosa. “Oh, povera piccola!” le disse prendendole una mano tra le sue e tirandola verso la casetta dalle finestre illuminate.
Se l’esterno era grazioso, l’interno non somigliava a nulla che Clara avesse mai visto. ovunque c’erano fate luminose intente nelle più svariate faccende o a oziare. Scaffali di legno contenevano alla rinfusa barattoli e leccornie, libri, abiti, vasetti di fiori e piccoli animali.
Tavolini e seggioline, cuscini, letti e poltrone erano disposti un po’ a caso nell’ambiente. La fata fece accompagnare la bimba accanto a un piccolo tavolo, le offrì una bevanda calda dolce di miele e alcuni dolcetti e stette a guardarla mangiare. Poi la invitò a esprimere un desiderio, ma Clara la guardò smarrita.
“Devi esprimere un desiderio,” disse la fata con pazienza. “Così io potrò esaudirlo. Ma devi sbrigarti, perché il tempo qui scorre in modo diverso e nel mondo degli umani è già passato un anno, da quando ti sei persa.”
La bambina spalancò gli occhi. Già un anno! Eppure, esitava.
“Che cosa ti trattiene?” chiese la fata guardandola sinceramente preoccupata.
La risposta arrivò in un sussurro. “La statua che narra le storie. È così brava che vorrei sentirne ancora una…”
La fata sorrise. Fece segno a Clara di seguirla e tornò accanto alla statua,  che riprese a narrare. “C’era una volta una bimba di nome Clara…” La bimba rimase di stucco. La statua stava raccontando proprio la sua storia!
Ma uno strano torpore la invase e si addormentò di botto sul sasso coperto di muschio.
Quando si svegliò, incredibilmente, era nel giardino di casa sua. Non c’era più traccia delle strane creature alate e luminose, ma la statua che narrava le fiabe era lì, accanto a lei.
Clara si rialzò e l’abbracciò con trasporto, prima di dirigersi verso le finestre illuminate della sua casa, dove la sua famiglia aspettava solo di riabbracciarla.
 

lunedì 9 marzo 2015

La fata dai guanti rossi

La fata dai guanti rossi

- Guanti rossi … Guanti rossi… Ma dove saranno finiti i miei guanti rossi?

La giovane fata sta rovistando nei bauli da un bel pezzo, quando finalmente si accorge del gatto Amilcare che la guarda con aria annoiata, tenendo in bocca i famigerati guanti.
- Oh! Grazie, Amilcare. Sei un gatto adorabile. Che cosa farei, se non ci fossi tu!

Un vortice d’aria e sono nel bel mezzo di una città moderna, tra passanti indaffarati. Nessuno presta attenzione alla giovane donna che passeggia con un bel gattone bianco e nero al suo fianco. Nessuno fa caso agli strani guanti rossi che brillano leggermente nel sole.

No. Un momento. Qualcuno in effetti li ha notati, quei guanti che brillano.
Una bambina tenuta per mano dalla mamma vorrebbe fermarsi a guardarli meglio. – Mamma guarda!
Ma gli adulti hanno sempre fretta, non hanno il tempo per fermarsi a osservare le cose.

Altri bambini hanno notato quei guanti rossi, ma non tutti hanno avuto il tempo di dire qualcosa.

Perché quei guanti che brillano adesso fanno schioccare le dita.
SNAP! E all’improvviso la città si ferma.
Tutti quanti sono immobili come statue. Il vigile che stava dirigendo il traffico, il venditore di gelati, il ragazzino che stava quasi per addentare il suo panino e il cetriolino dispettoso che stava per cadergli sulla maglietta.  

I bambini si guardano intorno stupiti. Sono un bel gruppetto. Bambini e bambine di varie età, sono gli unici a continuare a muoversi.
Insieme alla fata e al suo strano gatto che adesso si è messo comodo ai piedi di una statua e si liscia pigramente il pelo.
- Coraggio, bambini! – li incita allegramente la fata.
- Chi vuole iniziare il giro per Fantasilandia? Da questa parte, prego!
I bambini si riuniscono intorno a quella strana persona, che muove velocemente i suoi guanti rossi facendo loro cenno di avvicinarsi.
E i bambini si avvicinano. Nel silenzio irreale, avanzano circospetti in quella città che non è mai stata per loro. Bisognava dare la mano alla mamma, stare fermi, stare zitti, stare attenti al traffico…
 
Adesso no. La Fata dai guanti rossi li guarda con un gran sorriso stampato sulla faccia coperta di lentiggini e fa ondeggiare i riccioli rossi.

- Per prima cosa… i grandi magazzini!
La prima tappa della strana comitiva sono i grandi magazzini. I bambini hanno il permesso di correre, di giocare, di toccare quello che vogliono. Se rompono qualcosa, la fata è lesta a far schioccare le dita e tutto torna come nuovo.
Dapprincipio sono timorosi, poi si scatenano. Il reparto giocattoli è il preferito. Giocano, guardano, confrontano. Per la prima volta, possono rimanere per tutto il tempo che vogliono.
Quando hanno esplorato per bene il reparto giocattoli, alcuni stringono in mano un gioco che proprio vorrebbero portarsi via. Per alcuni è un pupazzo o una bambola, per alcuni un libro, per altri un gioco elettronico. La fata sorride mentre il gatto Amilcare, inforcato un paio di occhiali, prende accuratamente nota.
I giocattoli vengono rimessi al loro posto e si passa nella migliore pasticceria della città. Qui, ogni bambino può prendere un dolce e immediatamente le mani guantate di rosso ne fanno comparire uno uguale nella vetrina. Poi si va ai giardini e sulle giostre.
Amilcare accetta di fare compagnia a qualche bambino e quando scende barcolla, perché gli gira la testa.
In quella strana giornata, il sole non tramonta per molto, molto tempo.
Ma anche le cose belle finiscono e a un certo punto è tempo di tornare a casa. Ogni bambino torna nella posizione in cui era quando tutto è iniziato e… SNAP!
Tutto ritorna come prima. Il traffico riprende a scorrere, mentre il vigile lo dirige. Il famoso cetriolino cade sulla maglietta, mentre il ragazzino addenta finalmente il suo panino.

I bambini si guardano intorno, chiedendosi se hanno solo sognato quella strana giornata. Ma durante la notte, mentre dormono nei loro lettini, i giocattoli che avevano desiderato compaiono accanto a loro.
Alcuni di loro giureranno, al mattino, di avere intravisto un paio di mani guantate di rosso che li posavano sul comodino.
Ma tutti, tutti quei bimbi rimarranno a lungo molto più felici, disposti a credere alla magia della fata dai guanti rossi.



Ringrazio tutti per la pazienza con cui attendete le fiabe anche quando non riesco a essere regolare.

L'immagine è di The Vintage Angel

domenica 22 febbraio 2015

Di giada e d'ambra




Di giada e d'ambra


C’era una volta, in tempi antichissimi, un cavaliere nero come la notte che aveva una sposa luminosa come il giorno.
I due si amavano teneramente e dal loro felice matrimonio nacquero due figlie bellissime, che i genitori vollero chiamare come pietre preziose: Giada e Ambra.
Dopo alcuni anni, però, la luminosa sposa del cavaliere si ammalò e iniziò deperire pian piano. A nulla valsero le cure dei medici migliori del regno e i lunghi viaggi in cerca di questo o quel rimedio. Fino a che, quando ormai tutto il resto aveva fallito, qualcuno consigliò al cavaliere di andare a interpellare la Maga della Montagna.
Disperato, il cavaliere si mise in viaggio e arrivò in cima alla montagna che ormai era l’alba. 
Dalla grotta che gli avevano indicato uscì una donna che non sarebbe corretto definire vecchia.
Era, piuttosto, antica. Ogni centimetro della sua pelle era coperto da strani disegni e aveva l’aria rinsecchita ma forte di alcuni vecchi alberi che sopravvivono ai secoli. Appeso all’orecchio sinistro, aveva un minuscolo campanellino d’argento che tintinnava a ogni movimento.
La donna, dicevamo, uscì dalla grotta per salutare l’alba e si trovò davanti al viaggiatore esausto.
- Vai via! – gli disse solo, prima di dedicarsi alle sue faccende. 
Al tramonto, il viaggiatore era ancora davanti alla grotta, immobile come una statua. 
La Maga della Montagna sospirò e gli andò davanti.
- Ti ascolto – disse prima di sedersi a terra, imitata immediatamente dal cavaliere che usò tutta la sua eloquenza e tutte le sue migliori maniere per esporre la sua situazione e chiedere l’aiuto della Maga. 
Lei lo ascoltò in silenzio per tutto il tempo necessario, poi si alzò di scatto.
- Non ho rimedi per il tuo problema. Vai via!
Il cavaliere non si lasciò scoraggiare e si rimise in piedi fuori dalla grotta. 
La Maga rientrò e si coricò sul suo giaciglio, quando all’improvviso si accorse che la grotta era illuminata da uno strano chiarore. 
Ai piedi del suo pagliericcio c’era l’immagine di una donna luminosa come il giorno, con un’espressione sofferente sul viso. Stava lì in silenzio, immobile come una statua. 
Per tutta la notte la Maga  si girò e si rigirò, e ogni volta l’immagine della dama luminosa era lì immobile a guardarla.
All’alba, quando uscì per salutare il giorno, la maga vide che il cavaliere era ancora lì, in piedi, immobile fuori dalla grotta.  E così andò avanti ancora il giorno e la notte successiva e quella dopo ancora.
Diventata un po’ irritabile per la mancanza di sonno, all’alba del quarto giorno la Maga fece cenno al cavaliere di entrare nella grotta.
- Certo che tu e la tua sposa avete una bella tenacia, quando si tratta di convincere la gente ad aiutarvi!- sbottò ravvivando le fiamme del focolare, che fissò muta per qualche tempo.  
Infine si rivolse al cavaliere, offrendogli una ciotola d’acqua e un po’ di cibo.
- Ascoltami bene. Devi andare dal re e offrirgli i tuoi servigi per un anno. Sta proprio cercando qualcuno come te e ti ricompenserà con generosità. Allo scadere dell’anno, con il compenso devi  costruire una stanza di giada e d’ambra. Scegli solo i materiali migliori e conserva con cura la chiave di quella stanza, in cui dovrai entrare tu solo nelle notti di luna piena. La tua sposa sarà lì e potrete vedervi ancora. Di più, non posso fare. Ricorda: custodisci con cura la chiave!

Il cavaliere si profuse in ringraziamenti e si offrì di ricompensare la maga, che rifiutò e si congedò coi consueti modi rudi. 
Tornato a casa, apprese con enorme dolore che la sua sposa era spirata proprio la sera in cui lui aveva raggiunto la grotta della Maga, ma nella speranza di rivederla ancora decise comunque di seguire le indicazioni della strana donna della montagna. 
Andò dal re, lo servì fedelmente e allo scadere dell’anno chiese la sua ricompensa che fu invero molto generosa. Con quella, fece costruire una stanza segreta, interamente di giada e d’ambra che teneva sempre accuratamente chiusa.
- Quanti misteri! – si lamentavano le figlie. – Come se non bastassero le stranezze, ogni notte da quando sei partito abbiano sentito un suono di campanellino fuori dalle finestre, ma non abbiamo mai visto nessuno!
Ricordando il campanellino d’argento appeso all’orecchio della maga, il cavaliere sorrideva e moltiplicava i suoi sforzi per completare la stanza segreta prima della luna piena.
E la luna piena arrivò e la stanza era pronta e il cavaliere vi incontrò davvero la sua luminosa sposa.
Parlarono fino all’alba, rinnovandosi promesse d’amore e consigliandosi per la vita delle adorate figlie. 
Così proseguì, anno dopo anno. In certe notti anche il cavaliere sentiva riecheggiare all’esterno il suono di un campanellino, senza mai riuscire a scorgere nessuno.  
Le bellissime figlie infine crebbero e si sposarono con amore.
Il cavaliere, ormai un po’ avanti con gli anni, rimase solo nella casa che sembrava all’improvviso troppo grande. Continuava a recarsi nella stanza di giada e d’ambra ad ogni notte di luna piena per incontrare la sua sposa, ma divenne un po’ meno accorto nel custodire la chiave di quella stanza, sapendosi solo in casa.
E così accadde. Una gazza ladra trovò quella chiave luccicante abbandonata sul tavolo e se la portò via, volando dalla finestra.  
Il cavaliere, approssimandosi la luna piena, frugò piangendo ogni stanza e ogni angolo, ma la chiave era perduta.
Stava piangendo disperatamente tenendosi il capo tra le mani quando udì di nuovo il suono del campanellino d'argento. Ma questa volta, quando sollevò lo sguardo, la Maga della Montagna era davanti a lui.    
 - Ti avevo pur dette di custodire con cura la chiave – gli disse severamente, ma con una nota nuova di compassione nella voce.
Il cavaliere prese a piangere ancora più forte e a questo punto la Maga, del tutto inaspettatamente, gli pose dolcemente una mano sulla spalla. – Smetti pure di piangere. La tua sposa ti aspetta. Mai avevo preso così a cuore una vicenda umana, e spero davvero che non mi capiterà mai più nella vita. Ma non avevo mai visto una coppia amarsi tanto come voi due. Vieni con me.
Detto ciò lo condusse alla luce della luna piena in un bosco sconosciuto, tra alberi fruscianti e strane luci che danzavano nella notte. 
Infine giunsero davanti a una porta di giada e d’ambra e il cavaliere ebbe un sussulto. 
Provò a dire qualcosa, ma la maga, con gli occhi che sembravano davvero umidi di lacrime, lo zittì e gli consegnò una chiave d’oro. 
-Va’, ora, e siate felici!
Il cavaliere aprì tremando la porta e si ritrovò in una stanza che era l’esatta replica di quella costruita per sua moglie. E la sua sposa era lì, in carne ed ossa, e anche lui era di nuovo giovane e si abbracciarono. – Ma come è possibile ?– chiese il cavaliere appena riuscì a riprendersi un poco dallo stupore e dalla gioia. 
La sua sposa gli sorrise. - Dunque ancora non hai capito? La Maga della Montagna ha preso a cuore il nostro amore e ci ha concesso di vivere per sempre nel regno incantato. Da qui, potremo sempre vegliare sulle nostre figlie e stare finalmente insieme.
Detto ciò rise felice, scuotendo leggermente il capo. 
E il cavaliere si avvide solo in quel momento che un campanellino d’argento le ornava l’orecchio sinistro.  



Vi chiedo di perdonarmi se sono stata un po' assente. A volte anche le fiabe hanno bisogno di silenzio... ma ecco la fiaba per questo fine settimana. 


L'immagine è di Fairy Tales of the Secret Forest. 


domenica 18 gennaio 2015

La città.libro

La città-libro

C’era una volta un uomo molto indaffarato. Ogni giorno aveva una lista di commissioni da fare lunga così e allora si metteva a testa bassa a fare quello che doveva.
Anche quel giorno aveva iniziato presto, spuntando la sua lista e pensando “Allora, il meccanico per l’auto l’ho fatto… adesso devo fare quella piccola commissione, poi vado al supermercato, poi…”
Non si fermava mai, questo signore, perché era davvero DAVVERO molto indaffarato.
A malapena sollevava lo sguardo da terra quando andava a sbattere contro qualcuno, poi riprendeva le sue attività con gli occhi bassi e rimuginando fra sé le cose che ancora gli restavano da fare.
Non avrebbe saputo dire di che colore era il cielo, perché lui non aveva tempo di guardare il cielo. Forse per questo gli piaceva tanto la nebbia, come quella quel giorno avvolgeva ogni cosa. La nebbia, la vedeva anche continuando a camminare a testa bassa e facendo le sue cose.

Certo, della bellezza e della poesia del mondo sapeva molto poco, quell’uomo indaffarato. Ma così gli sembrava di risparmiare tempo. Scese dal tram e la prima cosa che vide guardandosi intorno fu una gran nebbia. Era in una parte della città che non conosceva affatto, ma non si perse d’animo.
In quella città, ogni via aveva la sua bella targhetta con il nome e ogni portone aveva il suo bel numero ordinato. Non gli ci volle molto per trovare il portone in cui doveva entrare.
Sempre con gli occhi a terra, passò davanti alla guardiola del custode e si avviò per le scale. Doveva andare al secondo piano, gli avevano detto.
Certo, dal cortile veniva proprio dei suoni strani. Sembravano strida di scimmie e di uccelli esotici. Aveva voglia di dare una sbirciata, ma la macchia verde che aveva colto con la coda dell’occhio gli era più che sufficiente per capire che c’erano delle piante, in quel cortile.
Del resto, era davvero troppo indaffarato per mettersi a guardare i cortili, lui.
Figuriamoci! Se avesse perso tempo a guardare tutti i cortili, non avrebbe mai sbrigato in tempo tutte le sue commissioni!

Al primo piano, però, lo sguardo gli toccò alzarlo, quando una noce di cocco gli mancò di poco la capoccia e a momenti lo fece inciampare.
E alzando gli occhi si accorse che, veramente, si trovava in una foresta.
Le scale sparivano di lì a pochi passi in un groviglio di giungla. Gli alberi svettavano alti, fino a un cielo azzurrissimo. Erano ornati da un groviglio di liane. Uccelli mai visti e dai colori sgargianti volavano di ramo in ramo, disturbando piccole scimmie che gridavano irritate. 
L’uomo indaffarato non ebbe il tempo di stupirsi a dovere, perché degli uomini con divise antiquate arrivarono urlando da destra, mentre da sinistra arrivavano altri uomini vestiti di pochi stracci dalla foggia strana. Si misero a combattere proprio davanti a lui.

L’uomo indaffarato sobbalzò, quando un  altro visitatore arrivò dalle scale ansimando un po’.  Gli si fermò accanto, facendosi aria con il fazzoletto.
- Ah! Siamo alle prese con i pirati della Malesia! - disse il nuovo arrivato, di ottimo umore.
- Scusi? 
L’uomo indaffarato faticava a raccapezzarsi.
- Salgari, amico mio. Salagari! - rispose l’altro inoltrandosi senza paura nella giungla.

L’uomo indaffarato ci mise un secondo a prendere la sua decisione. Si girò e si precipitò a capofitto giù per le scale, tornando da dove era venuto.
“Sicuramente ho sbagliato portone” pensava tra sé mentre riguadagnava l’uscita.
Il portone accanto aveva un’aria più rassicurante, con un bel frontone ornato.
All’interno, tutto era silenzioso.
Qui il custode non c’era.
Eppure anche quel cortile sembrava avere qualcosa di strano… Sembrava un giardino orientale, con giochi d’acqua e pavoni che passeggiavano pigri. In un padiglione riccamente ornato, un giovane abbigliato come un principe riposava su cuscini di seta. Aveva l’aria un po’ triste.

- Scusi? - disse l’uomo con un certo imbarazzo. – Saprebbe dirmi per piacere se questo è il portone numero 16?
Il principe si voltò molto lentamente: - Mi dispiace, no. So solo che qui siamo nelle 1000 e una notte, non so dirvi altro.

Ci vollero altri quattro portoni, all’uomo indaffarato, prima di capire che quelli in cui entrava non erano palazzi, ma libri. Libri pieni di storie affascinanti e sempre diverse.
Allora ritornò all’inizio di quella lunghissima via e prese a visitarli tutti quanti da cima a fondo, assaporando ogni attimo.
L’ultima volta che l’ho visto era più o meno all’altezza del portone numero 36, si stava divertendo molto e stava osservando il cielo.
– E mi mancano ancora tutti i numeri dispari! – mi ha detto estasiato prima di infilarsi nel portone successivo. 




domenica 11 gennaio 2015

Il palazzo e la stella degli elfi



Fiasba del fine settimana! L'altra fiaba verrà pubblicata a giorni...

Il palazzo e la stella degli elfi


C’era una volta, c’era, un giovane di belle speranze ma di pochi beni, che alla morte del vecchio padre decise di andare per il mondo in cerca di fortuna.

Solo una barchetta, possedeva, con cui si pescava nel grande mare quanto bastava a sfamarlo.
La sera, approdava in qualche caletta riparata, si accendeva un fuoco e trascorreva la notte guardando le stelle e sognando un futuro prospero e ricco di onori.

Non era una brutta vita, invero, quando le tempeste non ci mettevano lo zampino.
E quella notte, appunto, un mare arrabbiato lo scaraventò su una spiaggia sconosciuta, danneggiando la barca.

Il giovane guardò attentamente da una parte e dall’altra. Non si vedeva nemmeno una lucina di qualche abitazione e non si sentivano altri suoni se non il ruggire del vento e le onde che si infrangevano contro gli scogli.
Tirata in secca la barca, il giovane si avviò in una direzione a caso, sperando di trovare ospitalità in qualche casetta di pescatori.

Dopo molto camminare, infreddolito ed esausto vide infine una luce in lontananza. Era una casupola assai misera, ma in quel momento gli parve una reggia. Gli aprì la porta una donna né giovane né vecchia, con lunghi capelli neri che le ondeggiavano ben oltre le spalle.
Lo accolse senza una parola e gli servì una minestra calda da un paiolo che bolliva sul fuoco. Poi gli diede una coperta affinché si mettesse a dormire accanto al fuoco e se ne andò a dormire anche lei.

Al mattino, quando il giovane si svegliò, la donna gli rivolse finalmente la parola.
«Non ti consiglio di proseguire nella stessa direzione, giovane sventato. C’è grande agitazione, tra gli elfi che abitano quelle terre. Hanno smarrito la loro stella rossa e stanno frugando ogni angolo della costa per ritrovarla. Stanne lontano.»
Un po’ stupito da quella rivelazione, il giovane chiese dove poteva trovare aiuto per riparare la sua barca e, ricevute le indicazioni che gli servivano si rimise in cammino, tornando da dove era venuto. Ma quando si voltò per salutare con la mano la sua ospite, la casupola era scomparsa, e al suo posto c’era un bellissimo palazzo tutto bianco.
“Sicuramente, qualche illusione degli elfi!” pensò il ragazzo allontanandosi velocemente.
In quella quasi inciampò in una gattina minuscola, dal manto rosso. Se ne stava seduta in mezzo al sentiero, come se lo stesse aspettando.
Il giovane la prese in braccio. Aveva un aspetto strano, quella micetta, con il lungo pelo fulvo e gli occhi e le orecchie sembravano un po’ più appuntiti del normale.
Il giovane la rimise giù con delicatezza e riprese la sua strada, ma la gattina lo seguiva, miagolando sonoramente.
“Forse ha fame” pensò il giovane. Sollevatala di nuovo e tenendola in braccio si avviò verso la sua barca, dove era sicuro di avere qualche avanzo di pesce per la sua nuova piccola amica.
La gattina rossa mangiò di buon appetito, poi si accoccolò su alcune funi e si mise a fare le fusa. Il giovane si rese conto che avrebbe voluto tenerla con sé. E così decise.
Riparata la barca, la curiosità sulla misteriosa terra degli elfi riprese il sopravvento e ignorando gli avvertimenti della donna  dai capelli neri proprio in quella direzione diresse la prua.
Navigando a vista vicino alla costa, rivide il maestoso palazzo bianco e poi meraviglie e costruzioni quali non ne aveva mai viste in vita sua.  C’erano palazzi che seguivano i tronchi di enormi alberi dalle foglie tintinnanti e tutto era immerso in una bellissima luce dorata.

Il giovane si era ripromesso di tenersi lontano dalla costa, ma non avendo avvistato nessuno decise di approdare.
Appena ebbe tratto la barca a riva, la gattina scese a terra e iniziò a scrollarsi, rimanendo avvolta in un nube di pulviscolo d’oro.
Quando la povere si posò, al posto della gattina c’era una bellissima giovane elfa, dai capelli fulvi e le orecchie a punta.
In quel momento iniziò a raccogliersi lì intorno una folla di elfi, come spuntati dal nulla.
Il più autorevole si avvicinò al giovane e gli rivolse la parola.
«Grazie. Grazie straniero, per averci riportato la nostra principessa, la nostra Stella Rossa.»
Il giovane si guardava intorno a bocca aperta. «Non avevo idea…» riuscì a dire infine.
I grandi festeggiamenti per il ritrovamento della Stella Rossa gli diedero modo di riprendersi, e quando all’alba gli elfi gli chiesero di restare con loro, il giovane ne fu ben lieto. Le leggende dicono che ancora, nelle sere di nebbia, si può vedere un giovane navigare vicino alla costa, cantando felice.